purtroppo, dal 2013, ogni volta che sento la parola “single” mi viene in mente questo singolo (lol) il cui ritornello è molto orecchiabile – le rime meno – di fedez feat. danti vs simon de jano.
l’album era “sig. brainswash - l’arte di accontentare”, e ricordo che mediaset all’epoca mi mandò a intervistare fedez proprio per l’uscita del disco, il suo terzo lavoro in studio che lo aveva proiettato nel magico mondo della notorietà e in quel caso in un centro commerciale a nord della provincia di milano per intrattenere una folla di bambini urlanti. per chi abbia rimosso, in quel disco ci sono anche “cigno nero”, con la michielin, “nuvole di fango” con gianna nannini e altri featuring illustri.
la prima strofa del brano faceva così:
Il nuovo slogan se mi dici che ti sposi è :" meno monogamia più mononucleosi".
cazzo ma tu sei rambo a letto ti chiamano tempesta perché vieni in un lampo.
tu sarai anche brava a fingere gli orgasmi, ma io sono più bravo a fingere di amarti e arriva la classica cessa che dice: " sono single per scelta" – sì, degli altri.
10 anni dopo (quasi esatti, perché l’album li compie il 5 marzo) fedez è sposato con una delle donne mediaticamente più potenti del globo con cui ha appena litigato – vero o meno che sia – per aver limonato un altro uomo sul palco di sanremo, ha due figli che fanno già lavoro minorile e ha più tatuaggi ma soprattutto molti più soldi di prima. per tutti coloro che pensano che quella tra lui e chiara sia una relazione esclusivamente di lavoro, in quelle parole del testo suona una previsione, per il resto c’è un po’ di quel maschilismo so duemiladieci. c’è più complottismo su chiara e fedez che sulla storia di 5g e scie chimiche.
[nota: in ogni caso a una certa del brano fedez dice una delle poche frasi “ho un cervello e un cazzo ma troppo poco sangue per usarli tutti e due contemporaneamente”, ammissione che ho sempre trovato geniale e ficcante per l’80% degli uomini che conosco].
10 anni fa io arrivavo da una laurea bella ma inutile in filosofia della scienza e dalla mia prima esperienza lavorativa (se escludiamo l’avvilente gavetta nei giornaletti di provincia): uno stage di 6 mesi e un po’ nell’ufficio stampa di uno dei marchi di moda maschile di lusso più importanti del mondo in cui avevo capito che non avrei mai più lavorato in un ufficio stampa e che la moda non faceva per me, a partire da quell’isteria generalizzata e immotivata – che ho ovviamente ritrovato nel mondo dell’informazione e dell’editoria in cui poi sono stata catapultata dalle mie scelte successive.
all’epoca avevo lasciato fede (non quello di cui sopra) dopo quasi due anni di relazione, e mi ero buttata a capofitto nel master in giornalismo che ho scelto di frequentare – al posto della specialistica e di nuovi ragazzi –, così da concentrarmi sul mio percorso di carriera professionale e, a lato, sugli studi di teatro. ecco che a fine master, estate 2015, mi innamoro e piombo in una relazione tossica di circa 6 mesi che mi lascia così traumatizzata che per oltre 3 anni resto single, esclusa qualche breve parentesi innescata da un uso imprudente di tinder e da un incontro fortunato, ma non abbastanza.
in questi 8 anni, a parte il senso di solitudine che mi ha colto qualche volta, è cambiato poco. la mia base di partenza era sempre il solito monolocale in cui abitavo dal 2012 e dove il ragazzo di turno veniva a dormire una sera ogni tanto o nel weekend per poi lasciarmi i miei spazi sacrosanti, l’affitto, le bollette e le pulizie. in questi 8 anni, di poco, è aumentato pian piano anche il mio stipendio, e ai miei non ho dovuto chiedere più nulla: eccomi finalmente donna indipendente, che spendeva quasi tutto quello che guadagnava nelle cose di cui sopra, più cibo, alcool e qualche sfizio, ma almeno badava a sé stessa.
dopo un’altra relazione tossica a cavallo tra il 2018 e il 2019 rientra nella mia vita la persona con cui sto 3 anni e che mi convince, aiutata dalla pandemia che mi fa diventare claustrofobica, a fare il grande passo: andare a vivere insieme, abbandonando la mia tana per spostarmi in una casa più grande, più luminosa e soprattutto in cui tutto va diviso al 50%, compresi gli spazi mentali e il tempo libero. per me, che ancor più claustrofobica negli spazi fisici lo sono per i miei personali, è una rivoluzione, una sfida, a tratti persa.
entriamo nel nostro bilocale in affitto nel momento migliore possibile per firmare un contratto, quello del covid, in cui riusciamo a far abbassare alla proprietaria il canone di circa 300 euro. di colpo le mie spese si dimezzano, e io, anche con il mio piccolo stipendio, finalmente posso viaggiare (green pass e zone rosse permettendo) con la persona che amo, fare progetti, sognare, iniziare a risparmiare per sperare un giorno di non vivere più in affitto.
molte coppie nel 2020 e nel 2021 si lasciano, nel pieno della pandemia o per i suoi strascichi: un sacco di storie finiscono per cause diverse, nel frattempo la mia relazione procede, tanto da spingerci a prendere un gatto. poi, un giorno succede che non funziona più. ci vuole tempo per capirlo, ci vuole tempo per accettarlo, ci vuole tempo per tutto, ma poi finisce anche la nostra. e oltre al dispiacere e a tutto quello che riguarda il lutto (vedere newsletter dello scorso 31 gennaio intitolata “tutto finisce”), ecco che mi ritrovo di nuovo one girl band (più una bocca da sfamare) con lo stesso stipendio di tre anni prima, ma i prezzi degli affitti, del costo della vita e di qualsiasi altra cosa lievitati, più ogni spesa raddoppiata.
come scrive silvia granziero su the vision (testata a proposito di cui parlerò ancora sotto),
Gli 8 milioni e mezzo di italiani che vivono da soli affrontano un costo della vita più alto in media del 90% rispetto a quello pro capite di una famiglia di tre persone: quasi il doppio. La spesa alimentare mensile – bevande comprese – che si sobbarcano i single è di poco inferiore ai 300 euro, contro i 189 a testa per una famiglia, cioè il 58% in più; a cui si aggiungono anche le spese della casa, dato che gli appartamenti più piccoli hanno prezzi, sia di acquisto che di affitto, più alti al metro quadro, e le utenze, perché, che si sia soli o in due, l’uso dei fornelli è lo stesso, mentre, se si è single ma si vive con dei coinquilini, è più probabile che ciascuno si cucini da sé, con relativo dispendio di gas moltiplicato per il numero di abitanti della casa.
da due mesi vivo ancora nel bilocale di cui dividevamo l’affitto, e, nonostante il prezzo covid-friendly, 1120 euro più le bollette di luce e gas (per fortuna ho disattivato internet), il cibo, il micio e qualsiasi altra spesa quotidiana necessaria si fanno sentire. già prima di tornare a vivere da sola per una serie di motivi mi sono trovata a erodere lentamente i miei risparmi. ora, in appena due mesi, ho bruciato quasi tutto quello che avevo da parte, e il sogno di avere qualcosa da parte per cambiare il telefono o il pc, figuriamoci comprare un giorno casa, sta sfumando. ho quasi 33 anni, e ho meno certezze di quando ne avevo una ventina.
nelle scorse settimane, nella mia disperata ricerca di casa, avrò visto decine di appartamenti. loculi sudici e fuori dalle zone coperte dei mezzi arrivano a costare anche 800 euro, ma ti sembra normale? con gli agenti immobiliari che si leccano le dita perché sanno che un tetto sopra la testa servirà sempre a qualcuno, e che quindi il disperato accetterà di pagare quelle cifre per qualcosa che vale un quinto di quanto chiedono, mentre chi ha qualche soldo in più da spendere scenderà al compromesso di coprire affittuari e agenzie con commissioni astronomiche di denaro. qui un piccolo report delle mie disavventure.
sempre dal pezzo di silvia:
In un contesto come questo, convivere con il partner finisce per essere dettato dalla necessità, smettendo di essere una scelta spontanea: essere in coppia non dovrebbe obbligare ad andare a convivere se non si vuole o se non ci si sente ancora pronti a farlo; avere dei coinquilini – che può essere divertente e umanamente arricchente quando si è studenti fuorisede – invece, dopo i trent’anni finisce per essere una scelta (spesso obbligata) di risparmio per tanti, perché la completa autonomia economica purtroppo è ancora lontana.
[…] Ora che non esiste – almeno in Italia – l’obbligo sociale del matrimonio, dovremmo avere il diritto di scegliere se e quando andare a convivere; e invece, soprattutto per i giovani, spesso abitare con il partner è ancora l’unico modo per uscire dalla casa dei genitori, con buona pace di chi sostiene che avere ciascuno il proprio appartamento sia il segreto della solidità e della durata della coppia. Ecco perché se i giovani italiani escono dalla casa dei genitori a 30 anni – contro la media europea di 26 – usare termini come “bamboccioni”, “pigri” e “scansafatiche” quando si parla di loro non è solo antipatico, ma anche intellettualmente disonesto. Il problema economico, poi, vale in primo luogo per le donne: sono loro, specialmente se giovani, ad avere lo stipendio più basso (in Italia di circa il 15% in meno dei colleghi), oltre a fare i conti con le pressioni sociali che premono per incasellarle o nel ruolo di mogli e madri devote e appagate, o in quello, altrettanto stereotipato, di single in carriera, interamente consacrate al lavoro, oppure anche a entrambi contemporaneamente, senza attivare alcuna politica di reale sostegno.
[…] Se le difficoltà finanziarie della vita da single non sono una novità – in fin dei conti il matrimonio è nato (e in molte parti del mondo è ancora) come un contratto economico dagli scopi pratici, la cui componente romantica è un’invenzione molto recente – negli ultimi anni il costo della vita sta diventando sempre più insostenibile per chi vive solo, e che rappresenta una parte di una quota in crescita – di quasi il 5% negli ultimi cinque anni. Vivere da soli è un privilegio che in pochi possono permettersi.
io, e tanti nella mia situazione, in questo momento stiamo faticando come degli stronzi a galla, eppure dobbiamo ringraziare di vivere una sorta di privilegio.
Se l’ammontare delle spese nascoste che i single si sobbarcano non ci scandalizza forse è perché la vita da single è ancora, in un certo senso, percepita come una fase transitoria, un accidente dell’esistenza che ci si augura lasci presto spazio a un lieto fine romantico. Ma siccome i dati dicono chiaramente che le persone sole costituiscono una quota sempre più rilevante della popolazione, se lo Stato non le sostiene non può pensare di crescere.
il prezzo è quell’ansia di non poter pisciare mai fuori dal vaso, e di dover produrre, produrre, produrre, ancor di più di quanto non ci sia già stato inculcato dal sistema. ed eccoci a un altro problema.
come scrive davide traglia in quest’altro pezzo per the vision – per cui ho lavorato per 4 anni e mezzo e dove ho scoperto per la prima volta cosa fossero mobbing, rapporti di lavoro tossici e burnout, giurando a me stessa che non li avrei subiti più per poi ricapitare nelle stesse dinamiche, viva l’editoria che genera e lucra su queste stesse dinamiche – “LAVORIAMO TROPPO E SIAMO SEMPRE ESAUSTI. IL BURNOUT È LA SINDROME DELLA NOSTRA GENERAZIONE”. copio e incollo di seguito alcuni passi dall’articolo, che trovi in versione integrale ai link inseriti:
Nel 1952, lo scrittore e anarchico svedese Stig Dagerman pubblica su un periodico un monologo dal titolo Il nostro bisogno di consolazione. Si tratta di pagine sofferte, in cui Dagerman racconta la condizione di profondo soffocamento e ansia da prestazione a cui si sentì sottoposto per tutta la vita. Si sentiva schiavo del proprio nome e del proprio talento a tal punto da “non farne uso per timore di averlo perso” e se la prendeva con chi, soprattutto nel mondo dell’editoria, gli chiedeva continue prestazioni: “È privo di senso sostenere che il mare esista per sorreggere flotte e delfini. Lo fa, mantenendo però la sua libertà. Ed è altrettanto privo di senso affermare che l’uomo esiste per qualcosa che non sia il vivere. Certo, egli alimenta macchine o scrive libri, ma potrebbe fare qualsiasi altra cosa. L’essenziale è che faccia quello che fa mantenendo la propria libertà e con la chiara coscienza di avere in sé − come ogni altro dettaglio della creazione − il proprio fine. Egli riposa in se stesso come una pietra nella sabbia”.
[…] Secondo una recente indagine Eu-Osha, il 46% dei lavoratori europei sente infatti di essere esposto al sovraccarico di lavoro e ha paura di non avere abbastanza tempo per svolgere le mansioni richieste; circa il 36% mostra dei sintomi d’ansia connessi alla scarsa comunicazione e cooperazione all’interno dell’azienda, mentre il 50% teme che rivelare un problema di salute mentale possa incidere in maniera negativa sulla propria carriera. Nel nostro Paese le cose non vanno meglio: il Global Workplace Report di Gallup – pubblicato nel 2022 – ha rivelato che circa il 60% dei lavoratori italiani prova un sentimento di mediocrità e insoddisfazione pensando alla propria occupazione, soltanto il 4% si sente coinvolto da questa e circa la metà si è ormai abituata allo stress (il 49%) e alla preoccupazione costante (il 45%).
[…] Questo modello economico e sociale sta iniziando a mostrare il suo volto reale. Ci sentiamo sempre più stanchi, sfibrati, e incapaci di ascoltare i nostri tempi interiori. Il meccanismo competitivo ci costringe a realizzare sempre maggiori prestazioni, a sfruttare noi stessi e gli altri fino alla consunzione fisica per vedere certificata socialmente la nostra identità. L’asticella dell’auto-realizzazione e della gratificazione è spostata di volta in volta sempre più in là, condannando chi non si adegua ai ritmi produttivi all’ansia e al senso di colpa.
[…] Questi dati sono la prova che il burnout, da lavoro o da studio, non è un problema personale, ma collettivo. Affrontarlo come se fosse un fatto privato, da risolvere attraverso dei percorsi individuali, può servire sì alla singola persona, ma solleva da ogni responsabilità la comunità e il sistema politico e sociale in cui è immersa. Il capitalismo ci ha fatto credere che si possa esistere e raggiungere la propria pienezza solo nella produzione, che l’esistenza sia un’eterna prestazione, che si debbano superare i naturali limiti biologici anche a costo di vedere compromessa la propria salute mentale. Abbiamo interiorizzato la cultura dell’iperproduttività e della vittoria a ogni costo, al punto tale che metterle in discussione vuol dire ormai ridiscutere anche la nostra stessa umanità e il senso della vita stessa.
[…] Lavorare con passione è una cosa positiva: credere, però, che soltanto attraverso il lavoro sia possibile realizzare sé stessi e nobilitare il proprio essere è pericoloso, perché fa di esso una specie di religione a cui essere fedeli in modo passivo, e indipendentemente da qualsiasi altra considerazione. Il lavoro diventa un favore gentilmente concesso, un’opportunità – offerta da un imprenditore dal cuore d’oro – per scalare finalmente una piramide del potere che in realtà premia sempre e solo gli stessi pochissimi privilegiati.
è un mondo solo per privilegiati, insomma. questi sono sempre meno, mentre noi altri, bianchi o neri, etero o queer, poveri o poverissimi, arranchiamo nello stesso modo. chi si è battuto per anni per ottenere l’uguaglianza ora la vede realizzata, nel senso che sul fondo ormai ci siamo quasi tutti, mentre i privilegiati sono sempre meno, e mangiano sulle nostre teste.
in questo tripudio di single, il new york times ci consiglia di fare più sesso.
Sex is good. Sex is healthy. Sex is an essential part of our social fabric. And you — specifically — should probably be having more of it.
gli americani, secondo le ricerche, non fanno abbastanza sesso. più di un quarto di loro non hanno fatto sesso nemmeno una volta in tutto il 2021. il dato più alto nella storia del sondaggio general social survey.
That figure includes almost 30 percent of men under 30, a figure that has tripled since 2008. In the 1990s, about half of Americans were having sex weekly or more — that figure is now under 40 percent. For many who are having sex, the frequency has dropped precipitously. And it’s not just sex: Partnership and cohabitation are down, too. Less time spent with friends and lovers — these aren’t distinct issues but symptoms of the same cultural malaise, an isolation that is demolishing Americans’ social lives, love lives and happiness.
non è solo il sesso, scrive magdalene j. taylor, anche le amicizie sono crollate, e questo isolamento distrugge gli americani e le loro vite, ma in altri paesi probabilmente non va diversamente, né per gli uomini, né per le donne, tra pandemia, social media e circoli viziosi.
[…] Having more sex is both personal guidance — your doctor might well agree — and a political statement. American society is less connected, made up of individuals who seem increasingly willing to isolate themselves. Having more sex can be an act of social solidarity.
Not everyone who wants to have more sex is easily capable of doing so. Disabilities, religious objections, asexuality and any set of day-to-day restrictions and responsibilities curtail or close off sex for many. There may be some who simply do not want to have more sex, or any sex at all. But even those who won’t have more sex should avoid apathy. Sex is intrinsic to a society built on social connection — and right now, our connections and our sex lives are collapsing alongside each other.
Many people — like some of the young men I have spoken to in my work — have resigned themselves to displacing their sexual desires, relying entirely on porn or other online stimuli, mirroring so many types of relationships that have been subsumed into the digital world. As a balm for loneliness, digital sex can be little better than digital friendship — a source of envy, resentfulness and spite, a driver of loneliness rather than a cure for it. It’s no match for the real thing.
So, any capable people should have sex — as much as they can, as pleasurably as they can, as often as they can.
e quindi oggi, se fare sesso è a modo suo un atto di solidarietà sociale, anche convivere dovrebbe esserlo? forse ci meritiamo abitazioni in cui i coinquilini dividono l’affitto, le spese e il letto. forse sarà questa l’evoluzione di noi umani che abitiamo le città, e niente di tutto questo sarà promiscuo, ma costituirà un modo per salvare noi e la specie.