mentre scrivo giacomino, il mio gatto, sta producendo fusa accoccolato sulle mie gambe. mi regala calore mentre fuori fa qualche stitica goccia di pioggia che non basterà a lavar via lo smog che sta a poco a poco soffocando milano. mentre impasta i miei rotolini di grasso addominale penso che non si sta perdendo niente del mondo fuori, e che a volte vorrei che anche i miei orizzonti andassero dai fornelli della cucina alla doccia, i due punti più lontani della casa in cui sto abitando ancora qualche giorno, prima di lasciarla. riesco a renderli così fisicamente limitati, rifugiandomi dagli impegni sociali, mondani e pratici (tipo la spesa), solo qualche volta, che sia il giorno della settimana in cui posso usufruire dello smartworking, o la domenica. quest’ultima è la mia preferita, perché tra uno spostamento dal divano al letto e l’altro posso anche abbandonarmi a una dormita senza costringermi a trasformare il tempo in denaro come accade da contratto.
stacco
sono passati tre giorni. fuori il cielo minaccia di nuovo pioggia. forse farà ancora qualche goccia mentre esco per un aperitivo. è venerdì pomeriggio, sono arenata sul letto sfatto dopo aver spostato dalla casa vecchia a quella nuova qualche anno di vita e moltissima carta e polvere con l’aiuto di un paio di traslocatori che hanno fatto sembrare tutto incredibilmente facile, alleggerendo il mio carico emotivo.
sono rimasta quasi senza voce, non so se per le urla al concerto di ieri sera, se per il poco sonno che mi sto concedendo nelle ultime settimane; non so se è l’aver dimenticato la bandana l’ultima volta che ho preso il motorino o un accenno di influenza che per quest’anno credevo di aver scampato con l’inverno.
forse è tutto quello che sto lasciando indietro: ricordi tra queste mura, alcuni finiti direttamente nella spazzatura, la luce dell’alba che entra ogni mattina dalla finestra della camera bagnandomi gli occhi e che si poserà su quelli di un nuovo inquilino che non conosco, e spero sappia apprezzarla quanto me. i rumori dei termosifoni in salotto e le liti dei vicini dietro l’armadio del corridoio o che arrivano dal bagno dell’appartamento al settimo piano, come il mio, ma scala a.
mi mancheranno questi arredi bianchi, che sanno di pulito, tutte le pareti che avevo riempito di quadri e quadretti che non riuscirò a riappendere nella casa nuova, mi mancherà lo specchio enorme che moltiplica lo spazio dell’ingresso, e riflette da lontano la madonnina del duomo che fa capolino tra i palazzi.
non ho ancora inscatolato proprio tutto, restano le ultime cose che non vogliono andarsene, come me, pretendono di occupare quelle mensole, quei cassetti, quelle pareti, il frigorifero, la superficie liscia del tavolo nero in cucina su cui spiccano i peli di giacomino, che perde ovunque da quando ho smesso di spazzolarlo. ti giuro, giacomino, che appena ci stabiliamo nella casa nuova ricomincio. so che preferisci così, che non ti piace, ma è necessario dai. quelle cose entro domattina dovranno sparire, ma le voglio osservare ancora un po’ al loro posto, che non sarà più il loro. provo a visualizzarle nel posto nuovo che occuperanno e ad affezionarmi a questo progetto.
chissà se sono le cose, le persone e i ricordi che mi hanno portato via anche la voce, o il tentativo di incastrare tutta la mia vita nelle 24 ore di ogni giorno della settimana. negli ultimi mesi, e quello che leggi qui lo testimonia, continuo ad alternare rincorse e riposo, oscillando nella promessa di una futura stabilità, che continuo a rimandare. prima c’era la fine di una storia, poi ora la fine del trasloco. poi cosa ci sarà?
chissà se è la severità con cui mi impongo di stare dentro a un ritmo eteroimposto o se sono le delusioni somministrate da quelle persone che incrociano il nostro cammino per un breve periodo e lo accompagnano, finché non cambia il passo e ci si perde, ad avermi rubato la voce.
qualsiasi sia il motivo, ho appena chiuso l’intervista con un fotogiornalista che lavora in perù sussurrando le domande per farmi sentire meglio, mi sono premiata con uno yoghurt senza lattosio alla vaniglia e vorrei solo dormire un sonno lunghissimo.
giacomino è tornato accanto a me.
stacco
la newsletter di oggi è più corta, sono stata travolta dal lavoro, dalle scadenze e dalle emozioni negli ultimi giorni, e non sono sicura di quanto mi ci vorrà per riprendermi.
per fortuna ho chiesto a mattia madonia, amante come me di emmanuel carrère e del suo “i baffi”, citati nella scorsa newsletter di stilare una classifica dei suoi baffi preferiti, alzando incredibilmente il livello di maniae. lui lo trovate qui, o praticamente ogni 3 pezzi pubblicati da the vision. <3
ecco a voi i migliori baffi della storia
1 - Friedrich Nietzsche
Baffi enormi, da tricheco, maestosi nella loro sfida alla gravità. Coprivano tutta la bocca e si espandevano verso un eventuale interlocutore come a respingerlo, a creare una distanza di sicurezza. Nichilismo, forse misantropia: ho i baffi come scudo, stai alla larga da me, a meno che tu non sia un cavallo in una piazza di Torino.
2 - Salvador Dalí
Sottili, puntavano il cielo. Mutevoli nel tempo: ora dei riccetti umidi, ora delle mangrovie, forse delle spine, i rebbi di un tritone. Cosa li teneva su in quel modo? È bello pensare che la lacca prodigiosa fosse in realtà la saliva di Amanda Lear.
3 - Mario
Un idraulico di origine italiana con una salopette blu e un’aria da pornoattore anni Ottanta poteva non avere un mustacchione foltissimo? No, ovviamente. Baffo pixellato, poi sempre più nitido in seguito alle migliorie grafiche, con le ondine a lambire il labbro superiore. Un baffo formato famiglia, che piace a grandi e piccini, e uno stereotipo dell’italiano medio che in fin dei conti abbiamo tollerato. Meglio Super Mario che Furio dei Soprano, suvvia.
4 - Iosif Stalin
Nel podcast Tintoria, i padroni di casa Tinti e Rapone chiedono agli ospiti il loro dittatore preferito. Come baffi non c’è partita. Quelli di Hitler sono un coito interrotto, un segmento di peluria che non osa spingersi oltre. Quelli di Saddam sono fin troppo ordinati, e che onta l’ultima immagine prima di morire, lui con tutta la barba lunga e i baffi ridotti a masserizia tra i rovi grigiastri. Quelli di Stalin invece rappresentano il celodurismo in salsa sovietica, il nascondiglio di segreti, orrori e potere. Il vero Arcipelago Gulag è lì in mezzo.
5- John Holmes
Si ritorna al sesso, e forse il baffo è il metaforico prolungamento del cazzo, in questa società fallocentrica. Non che lui ne avesse bisogno, ma immagino tutti i dittatoruncoli imparanoiati per la micropenia a compensare con i baffi. Holmes invece tranciava questa narrazione: si può portare con fierezza il baffo anche essendo dotati di un pisello enorme. Un segnale di pacifismo. Mettete dei baffi sui vostri labbroni.
6 - Marcel Proust
Non proprio l’accenno di peluria post puberale, ma non di certo un baffo maestoso. Proust combatteva la mascolinità tossica esibendo dei baffi quasi infantili, peletti carichi della discrezione di chi non vuole briciole di madeleine impigliati tra i barbigi e la memoria di un tempo perduto.
7 - Clark Gable
Altro che David Gandy e Henry Cavill: il fascino di Clark Gable travalicava il tempo e lo spazio, e i suoi baffi erano un tratto distintivo. Curatissimi, quasi incollati sopra le labbra al punto da non poter volare via col vento, nessuna Rossella O’Hata poteva resistervi. Negli anni Trenta e Quaranta, diversi uomini di tutto il mondo tentarono di replicare quei baffi, ma portati da zio Turiddu di Caltanissetta non facevano lo stesso effetto.
8 - Ned Flanders
Un baffo iconico, perfetto per un personaggio un po’ casalingo ossessivo e un po’ fanatico religioso. D’altronde i baffi sono dotati di vita propria, conferiscono a chi li porta un segno identitario. Se per D’Alema il baffino è sinonimo di tafazzismo e disgregazione politica, per Flanders il baffone suggella un sodalizio con Dio lasciando qualche pertugio per il peccato. È l’americano di provincia dedito alle prediche. Non farà mai cadere un governo, al limite diventerà il Clark Gable per una maestra delle elementari.
stacco
la settimana scorsa avevo postato da tipo 48h il video in cui discorro del più e del meno con giacomino – vedere sotto:
a 48h + 1 settimana siamo arrivati a un dignitosissimo 5,6M visualizzazioni e a 14k follower acquisiti senza un motivo sensato. chissà cosa penserà il mio collega niccobrighe, che ha un serissimo e competitivissimo profilo in cui parla di storia e di cose realmente interessanti. a proposito, è qui.
in questi giorni ho cercato di capire che farmene di questa fiammata di successo. probabilmente rimarrà poco, perché è stato un risultato puramente casuale, ma se hai consigli per farmi diventare una tiktoker, così mollo tutto il resto e posso dedicarmi a parlare solo con il mio gatto e con te in questa newletter, li ascolto.
stacco
l’altra ieri sera, nonostante stessi una merda, sono andata al magnolia a vedere uno dei più bei concerti del 2023. auroro borealo, aperto – in senso figurato, anche se in effetti poi con una microfonata si è aperto una tempia in modo letterale – da supernino e dal mio mito assolutissimissimissimo martelli, che puoi ascoltare qui.
anche l’ultimo album di auroro è un capolavoro, e non a caso nonostante sia uscito da poche settimane tutto il pubblico già cantava a memoria. la vera hit per cui anche i posteri lo ricorderanno è cologno lord. e i suoi baffi a manubrio io li avrei inseriti nella top 8, mattia.
come si chiude una newsletter? mah, non ho ancora trovato la formula giusta. in compenso qui trovi quella per chiudere una cover letter.