comincio a scrivere questa nl a metà settimana, in una serata in cui avrei dovuto incastrare un aperitivo, un post-aperitivo e infine il live di un amico che fa questa cosa qui a cui davvero non avrei voluto mancare, ma poi il mio corpo, conclusa la giornata di lavoro, mi ha fatto capire che se non mi fossi fermata mi avrebbe fermato lui. tu chiamali se vuoi cali di pressione.
mi rendo conto, mentre mi ritrovo prigioniera del riposo, di quanto poco a volte ascoltiamo questo corpo, di quanto poco lo vogliamo ascoltare, lui e certi pensieri che sarebbe troppo lavoro metabolizzare con calma, quando si è impazienti, affamati e costretti a performare. ingrassiamo le giornate di qualsiasi cosa che possa distrarci, drogati dai ritmi frenetici del luogo o del sistema in cui viviamo, con l’illusione che sia il modo di curarsi, e invece ammalandoci sempre di più. e non è solo perché siamo stati fatti “schiavi della distrazione perenne”, ma perché lì dentro non ci stiamo poi così male.
il giorno prima di questa pausa, di fronte a una di diverse birre, un amico mi raccontava di come non riesca più a fidarsi dell’altro, e di come per questo motivo abbia sostituito qualsiasi speranza e volontà di avere una relazione stabile con una serie di frequentazioni in cui mantenere una distanza di sicurezza a garanzia di sopravvivenza. non che di amore si muoia, ma ci sono quelle delusioni che ci vuole troppo tempo per superare, e di tempo ne abbiamo sempre meno.
più invecchi, più elabori i vecchi traumi – a furia di scaricarli sugli altri e di sentirteli rinfacciare –, più ne accumuli di nuovi, più scendere a compromessi diviene impossibile.
e pian piano tutto ciò che è fuori di te, in una società come questa, che ci vuole sempre più atomizzati, finisce per rappresentare una possibile minaccia.
* apro una breve parentesi filosofica *
secondo il primo postulato certissimo della natura umana del filosofo thomas hobbes, in una condizione presociale e di natura, la bramosia naturale spinge gli uomini ad assicurarsi la sopravvivenza agendo in maniera egoistica, facendo di tutto per assicurare a sé stessi i beni necessari alla sopravvivenza.
l’insufficienza di questi beni porta ad un’accanita competizione tra gli uomini che rende lo stato di natura una situazione di incessante guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes) – se protratta nel tempo, può addirittura portare all’estinzione della specie. per hobbes questa situazione così estrema esiste, però, solo sul piano ipotetico, per il semplice fatto che, in caso contrario, andrebbe a perdere il suo bene primario, cioè la vita.
in base al secondo postulato, quello della ragione naturale, gli uomini tentano in tutti i modi di sfuggire al rischio della morte violenta. per questo fin dai tempi della sua creazione l’uomo non avrebbe mai vissuto al di fuori di un’organizzazione civile, cioè di una struttura capace di regolare i rapporti tra i vari membri.
gli esseri umani sono in grado di uscire da questa guerra di tutti contro tutti facendo leva su alcuni istinti quindi: procurarsi quanto necessario alla sussistenza evitando però la guerra continua ed il rischio della vita, e la ragione. la ragione proibisce a ciascun individuo di fare ciò che può provocare la distruzione della vita, consigliandogli invece di agire in modo che questa si conservi al meglio: questo principio razionale è alla base di tutte le leggi naturali che mirano a sottrarre l’uomo dall’influsso degli istinti.
appurato che oggi sfuggire a morte violenta, almeno nel pezzo di mondo in cui viviamo noi, è più semplice che nel 1600, ragionavo con lui – jacopo, non hobbes – di come sarebbe più facile costruire relazioni sane e fidarsi degli altri instaurando una sola, semplice regola: la schiettezza. dovrebbe essere la ragione a consigliarcela per una sopravvivenza emotiva, no?
quanto può essere difficile mettere subito le cose in chiaro? a volte credo non lo facciamo più che per disonestà di fondo perché sopravvalutiamo la nostra malleabilità e tolleranza, o perché temiamo di deludere gli altri, ma in definitiva il risultato è che proprio per questa incapacità di chiarezza iniziale non mancheremo di deluderli, o di annullarci. finché il compromesso sarà troppo grande e il patto non potrà che sciogliersi, ferendo inevitabilmente una delle due persone.
e ok, come abbiamo già decretato poco sopra, di amore non si muore, ma non c’è niente di più violento di un sentimento che smette di essere ricambiato. e non lo dico solo io, visto che in nuova zelanda il governo ha deciso di investire 4 milioni di dollari in una campagna che aiuti gli adolescenti a superare i cuori spezzati, con un obiettivo a lungo termine: prevenire future violenze domestiche.
*ho chiesto all’AI di rappresentare un cuore pulsante rosso trafitto da un proiettile per inserire qui un immagine, ma mi ha risposto che avrebbe corso il rischio di generare contenuti violenti, o mi ha proposto alternative agghiaccianti, quindi accontentiamoci di questo:
quello che ho postulato io è che la schiettezza è l’unica strategia di sopravvivenza che funziona insieme per noi e per chi abbiamo di fronte. se è biunivoca ci permette di tutelare i nostri limiti e di non fraintendere quelli degli altri. proteggendoci, senza essere egoisti. sembra di una semplicità disarmante, ma poi, nella pratica, non lo è.
perché abbiamo così paura di dirci la verità?
perché preferiamo presentarci per quello che non siamo, sapendo che prima o poi questo rovinerà tutto quello che abbiamo cominciato a costruire a partire da questo inganno?
beh, è facile parlare fuori da un caso specifico, pontificare su un futuro che non ha un nome e un volto, lo so. quando ci troviamo di fronte l’altro, nella sua differenza e indecifrabilità, all’interno di un mondo che moltiplica le incognite, l’equazione diventa insolubile e funziona solo quando entrambi, allora, in cambio della schiettezza sono disposti a mettere tonnellate di compromessi. il compromesso non è il male, è una virtù sempre più rara, ma non è naturale, né inesauribile.
perché abbiamo così paura di dirci la verità?
ho chiesto ad alcuni amici di cui ho stima di darmi la loro risposta, e questo è il risultato.
melissa - «In generale non riusciamo a essere sinceri neanche con noi stessi, perché viviamo e ci nutriamo di aspettative che elaboriamo costantemente a partire da input esterni, e questo ci porta in un certo senso a piegare anche quello che pensiamo e crediamo in funzione di queste aspettative o ideali cui riteniamo di dover per forza corrispondere.
Se non c’è in primis sincerità con noi stessi, non ci può essere con l’altro.
E anzi, diventa ancora più difficile, perché sull’altro proiettiamo non solo le nostre aspettative – di come l’altro deve rispondere ai miei comportamenti e di come l’altro voglio mi percepisca –, ma finiamo anche per introiettare quelle che sono le aspettative dell’altro, per non deludere, per dargli una certa immagine, per assecondare o meno la persona che abbiamo di fronte, ci viene spontaneo.
Il non essere sinceri con gli altri o con noi stessi è un meccanismo di adattamento che abbiamo perché a volte è più semplice e salutare credere a qualcosa che in realtà non è vero, piuttosto che alla realtà stessa che ci può far del male.»
* solo chi si adatta, ci insegnano anni di evoluzione, sopravvive. e purtroppo ci troviamo a tentare di sopravvivere non solo all’altro, a ciò che è esterno da noi e incontrollabile, ma addirittura a noi stessi.
luca - «Credo che il problema sia l’aver fondato le relazioni sul compromesso: ci fidanziamo e sposiamo sapendo che a qualcosa dovremo rinunciare, al sesso con gli altri o le vacanze da soli o la Pasquetta con metà degli amici. Ma siccome tendenzialmente nessuno di noi vuole rinunciare a niente, e siccome l’altro grande problema è il dialogo, ecco che incombono le fregnacce.»
* ed ecco il momento in cui difendo – senza averne mai provata una, senza sapere se ne sarei in grado e basandomi solo su racconti di amici che le stanno sperimentando da un po’ o su testimonianze esterne - le relazioni aperte, che nascono proprio a partire dalla presa di coscienza che non siamo fatti per rinunciare, non alla lunga, e che c’è un modo per non farlo, preservando il rapporto di fiducia.
daniele - «Sono stato un bugiardo cronico nelle prime relazioni che ho avuto, dai 16 ai 22 anni. L’obiettivo delle mie relazioni era fare innamorare di me più persone possibili. Essendo bravo a capire le persone, l’unica cosa che facevo era dire e fare quello che poteva piacere loro: sapevo dove andare a colpire e mi creavo una sorta di personalità differente, con un passato ad hoc. Finché non veniva fuori che ero una persona diversa e quindi la relazione si fermava.
Piano piano ho cominciato a dirmi: “perché devo essere io a fare tutto, se poi finisce nello stesso modo ogni volta?”. Dopo una storia finita malissimo sono riuscito a impormi di stare completamente solo per sei mesi, e non è stato per niente facile. E poi una persona mi ha cambiato: è stato così naturale stare con lei, senza che ci fosse bisogno di dire o fare nulla di diverso da com’ero, che ho capito che non era necessario mentire.
Perché ci fa paura la verità? Tanta gente ha paura anche solo di stare con se stessa, perché dovrebbe farci i conti, e non è mai semplice: è come un salto, o almeno un passo, nel buio, quindi è normale che faccia paura. anche se poi, con la verità, si starebbe meglio.»
* bene, lascio rispondere caselli, "La verità mi fa male, lo so / La verità mi fa male, lo sai / Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu (La verità ti fa male, lo so)”
mattia - «Credo che non riusciamo a dire agli altri certe verità per paura di ufficializzarle, di renderle anche per noi stessi reali. Confidiamo quindi nel nascondiglio; in tal modo abbiamo l’illusione che l’immagine che creiamo per gli altri (in particolar modo con il partner) diventi legittima anche per noi.
In realtà è come la foto sulla carta d’identità: è ciò che dovrebbe maggiormente rappresentarci, ma non siamo noi. Guardandola attentamente, fatichiamo a riconoscerci. Così ciò che abbiamo modellato per la società o per una singola persona resta solo un simulacro, un sintomo del people pleasing o della somma delle nostre insicurezze. Non è neanche ciò che vorremmo essere, è ciò che pensiamo gli altri vogliano da noi. E non esiste doppelgänger senza menzogna.
Preserviamo il “noi altro” attraverso la sottrazione della verità fino a non distinguere più la realtà dalla finzione. Almeno fino al prossimo rinnovo della carta d’identità.»
* [da “i baffi” di emmanuel carrère, 1986]
«Che ne diresti se mi tagliassi i baffi?». Agnès, che sfogliava una rivista sul divano, diede in una risata leggera, poi rispose: «Sarebbe una buona idea». Lui sorrise. Sulla superficie dell'acqua, nella vasca dove indugiava, galleggiavano isolotti di schiuma disseminati di peletti neri. La barba gli cresceva ispida, costringendolo, se non voleva, la sera, ritrovarsi con il mento blu, a radersi due volte al giorno. Al risveglio sbrigava l'incombenza davanti allo specchio del lavandino, prima di farsi la doccia, ed era una semplice sequenza di gesti meccanici, priva di qualunque solennità. La sera, invece, quella corvée diventava un momento di relax che organizzava con cura, premurandosi di riempire la vasca incassata con il telefono della doccia perché il vapore non appannasse gli specchi che la circondavano, posando un bicchiere a portata di mano, quindi spalmandosi lungamente la schiuma sul mento, passando e ripassando il rasoio, attento a non toccare i baffi che dopo pareggiava con le forbici. Che dovesse meno uscire e fare bella impressione, quel rito vespertino aveva il suo posto nell'equilibro della giornata, così come l'unica sigaretta che, da quando aveva smesso di fumare, si concedeva dopo pranzo.
Il tranquillo piacere che ne ricavava era rimasto invariato dalla fine della sua adolescenza, la vita professionale l'aveva persino accresciuto e quando Agnès canzonava affettuosamente la sacralità di quelle sedute di rasatura lui ribatteva che in effetti era il suo esercizio zen, l'unico spazio di meditazione destinato alla conoscenza di sé e del mondo spirituale che qli lasciavano le sue futili ma impegnative attività di giovane quadro dinamico. Performante, lo correggeva Agnès, con ironica tenerezza. Adesso aveva finito. Con gli occhi semichiusi, tutti i muscoli a riposo, si studiava la faccia allo specchio, divertendosi a esagerarne l'espressione di umida beatitudine e poi, cambiando a vista, di efficiente e determinata virilità. Un resto di schiuma gli era rimasto appiccicato all'angolo dei baffi. Aveva accennato all'ipotesi di raderli solo per scherzare, come a volte accennava a quella di tagliarsi i capelli cortissimi – li portava di media lunghezza, buttati all’indietro. «Cortissimi? Che orrore» protestava immancabilmente Agnès. «Con i baffi e il giubbotto di cuoio avresti l'aria di un finocchio».
«Potrei tagliarmi anche i baffi» «A me con i baffi mi piaci» concludeva lei. A dire il vero, non l'aveva mai visto senza. Erano sposati da cinque anni.
matteo - «penso che non siamo sinceri con gli altri per due motivi: la paura di essere giudicati per un’azione o un comportamento, che ci porta a nascondere o a omettere delle cose, e la paura di far soffrire l’altro, e quindi a volte ecco le bugie bianche, che quando vengono a galla fanno soffrire ancora di più.»
se anche tu vuoi dire la tua, puoi farlo nei commenti.
è davvero possibile disconnettersi dal momento che internet è una delle principali modalità di accesso alla cultura e all'intrattenimento?
quanto è fattibile prendersi una pausa dal cellulare se il nostro lavoro o le nostre relazioni sociali dipendono dall'essere connessi? ( spotted via segnalidalfuturo)
Abbiamo raggiunto il punto di saturazione di Internet. Lo sfinimento e la fatica sono evidenti. Anche così, siamo sempre più presi dallo schermo. È possibile sfuggire al rumore fragoroso dei social media? Possiamo trovare altri modi di concepire e relazionarci con internet che lascino spazio alla riflessione? […]
I social network sono diventati vetrine per chi fa ricerca, scrive, crea podcast, e per artisti, tatuatori e designer. Nella misura in cui abbiamo trasformato le nostre vite verso una produttività costante e una disponibilità 24 ore su 24, 7 giorni su 7, abbiamo trasformato il corpo umano in una risorsa che possiamo sfruttare a scopo di lucro, sia sociale che economico. […]
Il problema non è Internet in sé, ma il fatto che gli spazi digitali più popolari sono gestiti da imprese private il cui obiettivo principale è catturare i nostri dati e la nostra attenzione per un guadagno finanziario. E gli algoritmi di queste piattaforme, che sono nascoste alla vista, progettano il modo in cui ci relazioniamo gli uni con gli altri. Socializziamo all'interno di una struttura ben precisa che premia tutto ciò che ci tiene agganciati allo scrolling, consumando tempo davanti allo schermo; che si tratti di un video che critica il sistema capitalista e la società dei consumi o dell'ultima polemica su Twitter.
Non sono del tutto sicuro di poter trasformare la fusione di contenuti digitali in un debole mormorio, ma dobbiamo continuare a cercare altri modi di pensare e relazionarci con Internet in modo da avere ancora spazio per pensare.
come il tempo è diventato denaro, e come dovremmo ripensarlo.
in quest’era di stress e burnout, in cui il tempo sembra sempre troppo poco e il futuro è incerto, jenny odell ci suggerisce come potremmo cambiare la relazione che abbiamo con il tempo nel libro “Saving Time. Discovering a life beyond the clock”. Se ti suona il suo nome, perché è la stessa di “How to Do Nothing: Resisting the Attention Economy”. (via qz)
Misurare il tempo è “come immaginare contenitori standardizzati potenzialmente riempibili di lavoro. In effetti, c'è un forte incentivo a riempire queste unità di tempo con quanto più lavoro possibile”.
Se il tempo non è denaro, allora cosa potrebbe essere? Il titolo di Odell suggerisce di considerare il tempo come qualcosa di più ambiguo che misurabile: come se fosse in monete o come se fosse in pericolo, come se fosse riponibile o da conservare, come l'energia, come se fosse un documento sul desktop. L'ambiguità, ammette Odell, è voluta.
“È un antidoto a questa mentalità di voler cogliere immediatamente tutto e non avere pazienza per le sfumature. I doppi sensi, i significati sfuggenti o le metafore mi sono sempre stati molto utili per questo motivo”.
Possiamo ricostruire il nostro tempo a immagine di qualcosa di meno individualista e più condiviso.
In un passaggio del libro, fa visita a un'amica settantenne mentre pianta fagioli nel suo giardino. L'amica aveva comprato quei fagioli qualche decennio prima e li aveva condivisi con gli amici; quando la sua scorta si era esaurita, gli amici che avevano coltivato e messo da parte i fagioli gliene avevano restituito una parte. La storia, scrive Odell, germogliò in una mezza battuta tra i suoi amici: il tempo non è denaro. Il tempo è fagioli.
“Dire questo significa che puoi prendere tempo e regalare tempo, ma anche che puoi piantarne e farne crescere di più, e che ci sono diverse varietà di tempo. Significa che tutto il tuo tempo nasce dal tempo di qualcun altro, forse da qualcosa che qualcuno ha piantato molto tempo fa", scrive Odell. "Significa che il tempo non è la valuta di un gioco a somma zero e che, a volte, il modo migliore per ottenere più tempo sarebbe donarlo a un altro, e il modo migliore per l’altro di averne un po' sarebbe di riportarlo”.
quando è giusto che io mi sforzi?
“Mi chiedo se sforzarmi così tanto potrebbe arrivare a uccidermi.”
Lo stress non è buono o cattivo. È uno strumento. A piccole dosi è buono, ma troppo di una cosa buona diventa una cosa cattiva piuttosto rapidamente.
Quando la tua risposta allo stress funziona correttamente, corri più veloce, la tua memoria migliora, sei in grado di concentrarti meglio. Ma quando la tua risposta allo stress è eccessivamente attivata o cronicamente attivata, ottieni ulcere e malattie cardiache. Fa male!
Una buona analogia è l'esercizio. Troppo poco esercizio e ti esponi a tutta una serie di malattie, sia fisiche che psicologiche. Troppo, e puoi davvero ucciderti.
[…] I ratti esposti a ripetute scosse elettriche hanno maggiori probabilità di sviluppare ulcere. Ma se suoni un campanello prima di somministrare lo shock, rendendo lo shock più prevedibile, è meno probabile che i topi contraggano ulcere. Se rendi prevedibile il fattore di stress, devi solo essere stressato prima che accada. Ciò significa che non sei stressato per il resto del tempo, e quindi la risposta allo stress non provoca così tanti danni al tuo corpo.
Quando ai ratti esposti a ripetuti fattori di stress viene dato un pezzo di legno da rosicchiare, è molto meno probabile che sviluppino ulcere. Gli sbocchi per la frustrazione sono un altro importante meccanismo di coping per lo stress.
[...] Questa è la cosa veramente interessante: lo stress non è matematico. Esponi due persone diverse allo stesso fattore di stress e avranno risposte diverse in base alle loro strategie di coping. Il che significa che se vuoi vivere una vita in cui spingere al massimo, è meglio sviluppare una varietà di strategie di coping per aiutarti a gestirla.
Il paradosso è ovvio: tutti sembrano essere più ossessionati che mai dall'essere “reali”, dall'individualità e dalla differenziazione, mentre allo stesso tempo partecipano a uno dei meccanismi di riproduzione dello stile di vita più inebrianti della storia umana.
Che sia attraverso la massificazione di micro-etichette, l'espressione “era” o la trasformazione continua delle nostre vite in contenuti consumabili, è impossibile capire come le nostre identità sono rappresentate online senza comprendere l'influenza del capitalismo digitale su questa rappresentazione. Il desiderio di differenziarci, il feticcio dell'originalità e le autodefinizioni che ci inventiamo non sono altro che strumenti che inevitabilmente seguono un modello di consumo che ci intrappola, mentre allo stesso tempo siamo sinceramente grati di essere nati nell'era digitale.
quando cerchiamo di migliorare la nostra vita, il primo pensiero va quasi sempre a cosa potremmo aggiungere o fare in più. il problema è che buttandoci sempre sul “di più” ci dimentichiamo di considerare che potrebbe esserci anche un “meno”, e che a volte sarebbe la scelta migliore. fare meno però è molto più difficile, soprattutto quando ci sentiamo sopraffatti, perché non ci viene nemmeno in mente come opzione.
La tendenza ad aggiungere sembra rafforzarsi quante più cose abbiamo in mente. La spiegazione più logica del perché così tante persone non riescano a scegliere la risposta sottrattiva corretta è perché non ci hanno nemmeno pensato. Istintivamente hanno pensato di aggiungere, poi hanno aggiunto, e poi sono andate avanti.
con un linguaggio il più possibile concreto. mentre se vogliamo che le persone pensino che la nostra idea ha potenziale, o che siamo dei visionari, meglio utilizzare un linguaggio più astratto. dipende dal risultato che vogliamo ottenere. un modo efficace per rendere le tue parole più concrete o più astratte può essere focalizzarti sul come o sul perché: se vuoi essere più concreto concentrati sul come, se vuoi invece essere più astratto sul perché.
Quando Uber è stata fondata nel 2009, sarebbe stato facile descrivere l'attività in questo modo: "Un'app per smartphone che rende più facile prendere un taxi, mettendo in collegamento passeggeri e conducenti e riducendo i tempi di attesa". Questa descrizione è perfettamente accurata e fornisce un buon senso di ciò che fa l'azienda. È anche molto concreto. Utilizza un linguaggio specifico per aiutare le persone a comprendere la natura dell'attività di Uber.
Ma non è l'unico modo in cui Uber potrebbe essere descritto. In effetti, uno dei cofondatori ha effettivamente posizionato l'azienda in modo molto diverso. Lo ha descritto come "una soluzione di trasporto conveniente, affidabile e facilmente accessibile a tutti".
Entrambe le descrizioni danno un'idea dello spazio generale in cui si trova Uber e di cosa sta cercando di fare. Ma mentre la prima descrizione è abbastanza concreta, il modo in cui il cofondatore ha effettivamente lanciato l'attività è molto più astratto.
sai distinguere i messaggi d’amore di un umano da quelli di un’intelligenza artificiale? scoprilo qui
perché la cannabis dovrebbe essere legale? ne ho parlato con matteo mainardi su vd.
annamaria è la mamma di alessandro, ragazzo transgender di 17 anni che ha vissuto sereno fino a quando il suo corpo non ha cominciato a cambiare. a 15 anni ha fatto coming out con la madre, dicendo di sentirsi un maschio eterosessuale intrappolato nel corpo di una femmina. super lavoro di melissa per vd.
un anno prima avevo raccontato la storia di una desister.
mostre/fiere - a milano in questi giorni c’è la dodicesima edizione della MIA (milan image art) fair, e dopo un paio d’anni in cui ero rimasta delusa devo dire che stavolta vale davvero la pena scoprire artisti e gallerie da tutto il mondo. tra oggi e i prossimi giorni condividerò un piccolo riassunto e qualche focus su lavori che mi sono piaciuti particolarmente sul mio profilo ig.
assurdità - per la prima volta un mio video è andato davvero virale su tiktok – mentre scrivo sono a +800k riproduzioni in poco più di 24h, mai successo niente del genere. comunque ho chiesto a chatgpt come replicare, e sembra tutto molto semplice, ma chissà. nel caso mollo tutto.
There is no surefire way to guarantee that a video will go viral, but there are a few strategies you can try to increase the chances of your cat video gaining popularity:
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Remember that even if your video doesn't go viral, it can still be enjoyed by your friends and family. So have fun creating your video and don't put too much pressure on it to be a huge success!
nota finale: ho provato a inserire alcune grafiche orrende per agevolare la tua lettura attraverso sezioni più chiare, e farò in modo di migliorarle nei prossimi numeri, visto che ora sembrano il frutto del lavoro di un grafico ubriaco e daltonico.
se hai suggerimenti sono sempre ben accetti. <3
ti auguro un weekend pazzesco, ci rivediamo qui il prossimo.